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La macchina scivolava lenta lungo una strada secondaria, i fari che illuminavano a tratti i cespugli e i cartelli stradali. L’aria notturna entrava dal finestrino abbassato di qualche centimetro: portava con sé un odore di campagna e asfalto umido.

Michele teneva le mani sul volante, concentrato. Stefania, seduta accanto a lui, aveva le gambe accavallate e le dita che giocherellavano con l’orlo del vestito leggero. Da qualche minuto lo guardava in silenzio, con quel mezzo sorriso che Michele aveva imparato a temere e desiderare allo stesso tempo.

«Sai che questa strada,» disse a un tratto, con voce bassa, «mi ricorda una vacanza di tanti anni fa?»

Michele la sbirciò appena, senza staccare gli occhi dalla strada. «Che vacanza?»

«Una con le amiche… avevo ventiquattro anni.» Si bagnò le labbra lentamente. «Una notte in spiaggia. Vuoi che ti racconti?»

Michele sentì il petto stringersi. Non rispose subito, ma la mascella gli si contrasse. Stefania rise sottovoce. «Oh, sì che vuoi. Lo vedo da come stringi il volante.»

Gli posò una mano sulla coscia, leggera. «Non era nemmeno un italiano, sai? Un tedesco. Erik si chiamava.»

Michele fece un respiro più lungo, lo sguardo fisso sulla strada buia. «Un tedesco?»

«Mh.» Stefania sorrise, socchiudendo gli occhi. «Alto, biondo, occhi chiari. Non parlava quasi inglese, io non parlavo tedesco. Ma quella sera avevo voglia, e lui era bello.»

Michele deglutì. «E quindi?»

«E quindi…» Stefania lasciò che la frase scivolasse via, mentre la sua mano risaliva di poco sulla coscia di lui. «Se ti fermi in un posto appartato, te lo racconto tutto. Voglio che tu lo immagini bene, mentre guidi.»


«Era il 2004,» iniziò Stefania, fissando la strada davanti a loro come se rivedesse la scena proiettata sul parabrezza. «Ero al mare con due amiche. Una vacanza breve, di quelle che fai con pochi soldi e tanta voglia di divertirti. Una pensioncina vicino alla spiaggia, serate passate tra locali e falò sulla sabbia.»

Inspirò, come per sentire ancora l’odore di salsedine. «Quella sera c’era stata una festa sulla spiaggia. La musica alta, le birre, gente che ballava scalza vicino all’acqua. Io avevo un vestitino corto, leggero, e dei sandali bassi. Le mie amiche si sono perse dietro a un gruppo di ragazzi, e io sono rimasta un po’ per conto mio. È lì che l’ho visto.»

Un sorriso lento le piegò le labbra. «Si chiamava Erik. Un tedesco. Avrà avuto ventisei, ventisette anni. Alto, biondo, abbronzato, con gli occhi chiari che ti guardavano dritti dentro. Indossava una maglietta semplice e dei bermuda. Non era vestito per impressionare, non ne aveva bisogno. Bastava il suo corpo.»

Michele serrò le mani sul volante, e Stefania continuò, crudele. «Non parlava quasi inglese, e io non sapevo il tedesco. Abbiamo riso goffamente, provando a capirci con gesti e mezze parole. Ero allegra, leggera… e attratta da lui. Non era un ragazzo che corteggiava, non era lì per conquistarmi con le chiacchiere. Era bello. E a me bastava.»

Fece scorrere lentamente la mano lungo la coscia di Michele. «Abbiamo camminato un po’ sulla spiaggia, lontano dalla musica, dalle risate. Ci siamo seduti sulla sabbia umida. Non c’era bisogno di dire altro. Ci guardavamo soltanto. Poi lui mi ha baciata, senza chiedere. E io non mi sono tirata indietro.»


«Il bacio è stato improvviso,» continuò Stefania, con la voce più bassa. «Uno di quelli che non ti lasciano il tempo di decidere se accettarli o no. Ho sentito il sapore di birra sulle sue labbra, il sale del mare, il calore della sua bocca che si incollava alla mia. Non sapevo come dirgli nulla, non potevo. Così ho risposto con il corpo, senza parole.»

Michele respirava con calma apparente, tenendo lo sguardo fisso sulla strada. Stefania si piegò appena verso di lui, il tono più intimo. «Mi ha preso per i fianchi e mi ha tirata contro di sé. Il vestito leggero mi si è sollevato un po’, e ho sentito la sua pelle calda sfiorare la mia coscia. Era deciso, diretto. Io ridevo nervosa, nervosa e eccitata insieme.»

Chiuse un attimo gli occhi, rivivendo la scena. «Sulla sabbia ci siamo seduti vicini, lui con le gambe divaricate, io che ci scivolavo dentro. Le sue mani grandi che esploravano sopra il vestito, poi sotto, scivolando lungo le mie cosce nude. Ogni tocco era un ordine silenzioso. Non serviva parlare, non servivano frasi. Bastava il suo corpo contro il mio.»

Fece una pausa, stringendo il ginocchio di Michele. «Sai cosa mi ha colpita, amore? Che io, quella sera, avevo davvero voglia. Non era un gioco, non era curiosità. Volevo sentirmi presa, volevo assaggiarlo. E non importava che non capissi una sola parola di quello che diceva. La lingua che parlava era il suo corpo.»


«A un certo punto non ho più resistito,» disse Stefania, con un sorriso che aveva dentro più crudeltà che nostalgia. «Gli ho passato una mano sulla coscia e poi sul rigonfio sotto i bermuda. Era già duro, teso, lo sentivo premere forte contro il tessuto. Lui non ha fatto resistenza: si è lasciato fare, mi ha guardata come se fosse la cosa più naturale del mondo.»

Fece una pausa, e Michele avvertì la sua mano che stringeva il suo ginocchio. «Gli ho abbassato i bermuda, un gesto lento, e sotto i boxer l’ho visto spingere fuori subito, rigido. Era più grande degli altri che avevo visto allora: spesso, con la cappella gonfia e lucida di desiderio. Mi ha colpita, mi ha fatta sorridere. Era un cazzo bello, Michele. Non serviva che dicesse nulla.»

Si passò la lingua sulle labbra, come a rivivere il gesto. «Gli ho preso l’asta con una mano, scoprendo la pelle tesa. Lui ha lasciato andare un sospiro lungo, la testa buttata indietro. Io ero in ginocchio sulla sabbia, sentivo i granelli che mi pungevano le ginocchia, e ho aperto la bocca. L’ho succhiato, solo la punta all’inizio, assaggiandolo. Il gusto era salato, misto al sapore del mare che avevamo addosso.»

Il respiro di Stefania si fece più lento. «Poi ho iniziato a muovere la bocca avanti e indietro, con la mano che seguiva il ritmo. Ogni volta che scivolavo giù lo sentivo riempirmi la bocca, la cappella che sfiorava la gola. Lui gemeva parole in tedesco che non capivo, ma il tono era inequivocabile. Mi chiedeva di più.»

Si fermò un istante, la voce roca. «E io gliel’ho dato. L’ho succhiato forte, bagnandolo di saliva, sentendo le vene gonfie sotto la lingua. E intanto pensavo solo a quanto fosse eccitante: non sapevo nulla di lui, e lo stavo già prendendo in bocca sotto le stelle, con la sabbia umida che mi entrava tra le dita dei piedi.»


«Non ci è voluto molto,» riprese Stefania, stringendo la coscia di Michele. «Ero lì che lo succhiavo con ritmo sempre più deciso, la mia mano che lo seguiva alla base, e sentivo il suo cazzo diventare ancora più duro, più gonfio. Ogni volta che la lingua gli passava sotto la cappella, gemeva forte, parole spezzate che non capivo. Ma non serviva capirle: erano il linguaggio universale di uno che stava per venire.»

Inspirò, gli occhi che brillavano nel ricordo. «Ho sentito il suo corpo irrigidirsi, i fianchi che si muovevano a scatti contro la mia bocca. Allora ho succhiato più forte, e in un attimo l’ho sentito esplodere. Fiotti caldi, densi, mi hanno riempito la bocca. Ho deglutito d’istinto, ma era troppo: una parte mi è scivolata sulle labbra, un’altra è colata fuori, giù sul mento e sulla sabbia.»

Un sorriso crudele le piegò le labbra. «Ero inginocchiata lì, con la bocca piena, il sapore forte che mi restava in gola, e la sabbia che mi graffiava le ginocchia. Mi sono passata la lingua sulle labbra, lentamente, guardandolo negli occhi. Lui ansimava, con le spalle curve, come se non credesse di essere venuto così in fretta.»

Si lasciò sfuggire un sospiro. «E sai la cosa peggiore, Michele? Che invece di sentirmi in colpa o sporca, io mi sono eccitata ancora di più. Avevo voglia. E lo volevo di nuovo.»


«Non ci siamo fermati lì,» continuò Stefania, la voce più roca. «Lui si è rimesso a sedere, ancora ansimante, e io pensavo fosse finita. Invece, dopo pochi minuti, l’ho visto duro di nuovo. Non ci credevo: giovane, pieno di energia, e già pronto a ricominciare.»

Un sorriso lento le increspò le labbra. «Ha tirato fuori un preservativo dal portafogli, me lo ha mostrato con un mezzo sorriso. Non servivano parole. Lo ha srotolato sul cazzo con gesti sicuri, e mi ha attirata sopra di lui. Io ridevo, sorpresa, ma mi sono lasciata guidare. Ho spostato il vestito, mi sono seduta a cavalcioni, e ho sentito la cappella che mi premeva contro.»

Si interruppe un attimo, stringendo la coscia di Michele. «Quando è entrato, ho cacciato un gemito. Era grosso, mi apriva tutta, e io ero già bagnata. La sabbia sotto l’asciugamano mi pungeva la pelle, ma non importava. Mi muovevo su di lui, avanti e indietro, le mani sulle sue spalle, e lo guardavo negli occhi senza capire una sola parola di quello che diceva. Ma i suoi gemiti mi dicevano tutto.»

Il respiro le tremò. «A un certo punto mi ha afferrato i fianchi e si è messo sopra. Missionaria, semplice, ma con tutta la sua forza. Mi spingeva dentro con colpi profondi, il corpo caldo che mi schiacciava contro la sabbia. Io gemevo forte, non mi importava se qualcuno poteva sentirci. Ero persa in quel corpo che non conoscevo, in quel cazzo che mi riempiva senza sosta.»

Si morse il labbro, chiudendo gli occhi. «Sono venuta così, sotto di lui, le unghie piantate nella sua schiena. E poco dopo l’ho sentito irrigidirsi, le spinte più rapide, finché non è venuto dentro al preservativo, con un gemito che sembrava un ringhio. Poi si è lasciato cadere accanto a me, ridendo sottovoce, e ci siamo guardati senza sapere cosa dire.»


La macchina era ferma in un punto appartato, i fari spenti, il motore silenziato. Michele non si era mosso: stringeva il volante come se fosse l’unico appiglio, lo sguardo fisso davanti a sé. Stefania, seduta accanto, lo osservava di lato con quel sorriso lento e crudele che lo faceva impazzire.

«Ecco,» sussurrò, «così è andata. Un ragazzo tedesco, bello, che non parlava quasi la mia lingua. Io che l’ho succhiato fino a sentirmi la bocca piena, e poi mi sono fatta scopare forte, con il preservativo. Non sapevo il suo cognome. Non sapevo nulla di lui. Ma avevo voglia, e l’ho fatto.»

Michele deglutì a vuoto, la mascella contratta. La gelosia lo rodeva, lo consumava dall’interno. Stefania gli afferrò la mano, la spinse tra le sue cosce calde. «Lo immagini, vero? Io a ventiquattro anni, con la sabbia che mi graffiava la schiena, mentre gemevo sotto uno sconosciuto.»

Lui gemette sottovoce, un suono strozzato. Stefania rise, gli sbottonò i pantaloni e tirò fuori il cazzo duro. Lo prese in mano, lenta. «Così, amore. Vieni anche tu. Vieni come è venuto lui. Ma tu sei diverso: tu lo fai mentre pensi a me che godo con un altro.»

Michele si lasciò andare sul sedile, incapace di resistere. Stefania lo segava con movimenti decisi, il respiro caldo sul suo orecchio, le parole che gli colavano dentro come veleno. «Lui mi è venuto in bocca, io ho deglutito. Poi mi ha scopata forte finché non sono venuta anch’io. E tu, adesso, sei qui, a tremare per lo stesso ricordo.»

Con un gemito lungo, Michele esplose, il cazzo che pulsava tra le dita di lei. Fiotti caldi gli bagnarono il ventre, e lui chiuse gli occhi, il corpo scosso dal piacere e dalla rabbia insieme.

Stefania lo guardò con un sorriso soddisfatto, asciugandosi le dita. «Vedi, amore? Anche tu sei venuto per Erik. Anche tu sei schiavo di quella notte che non hai vissuto.»

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